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Il festival della Valle d’Itria indica la strada per riprendere il filo di Arianna

foto arianna a nasso [1]

di Oreste Roberto Lanza

Un Festival per ritrovare il filo. La 46esima edizione del Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, la città del belcanto nel Sud, in tempo di covid19, ha indicato una strada: ritrovarsi, dopo essere stati abbandonati su un’isola deserta. Potremmo dire che il Festival di Alessandro Caroli, il suo fondatore, di Paolo Grassi e dell’inossidabile Franco Punzi, persona perbene e di grande temperamento culturale, miglior messaggio non poteva non lanciare alla gente d’Italia e del Sud per ritrovare il filo perduto.
“Arianna a Nasso”, probabilmente, è stata la vera Prima di un festival che ancora una volta, con coraggio e fermezza, è stato molto incisivo in questa estate 2020, che di bello poco ricorderà. Una storia di abbandono su un’isola deserta, circondata da un mare che sembra incolmabile e sterminato e dello strazio inconsolabile per la perdita di una persona amata, che al risveglio non troviamo più accanto a noi, risuona così tristemente familiare in questo tempo di isolamento, di solitudine forzata, di distacchi che sembrano irrecuperabili e di distanze che non erano sembrate tante laceranti. Il labirinto simbolo dell’isolamento dal mondo esterno, il filo che Arianna dona a Teseo per uscirne.
Il direttore Fabio Luisi, una regia eccellente di Walter Pagliaro, l’orchestra del teatro Petruzzelli di Bari, il soprano Carmela Remiglio (Arianna) e Jessica Pratt (Zerbinetta) hanno saputo incantare una platea attenta e desiderosa di ritrovare l’attimo essenziale del bel teatro musicale. Gli ottimi suoni, le grandi magie da palcoscenico, i vocalizzi di grandi professionalità a rappresentare la storia di Arianna, dei suoi lamenti, i suoi due grandi amori hanno fatto il resto.
La storia, quella di Arianna e Teseo sull’isola di Nasso, ha solleticato il pubblico, silenzioso e sempre attento, ad applausi che hanno rischiato di andare oltre i seicento secondi. Non da meno, la Prima vera andata in scena all’apertura dell’appuntamento canoro martinese: “Il borghese gentiluomo” di Molière (Jean-Baptiste Poquelin), con musiche di Richard Strauss, proposta nell’edizione del 1917, con il libretto di Hugo von Hofmannsthal, in una versione curata da Quirino Principe, fra i massimi studiosi straussiani. Una versione nuova che, ha nell’edizione martinese, un punto di forza nella presenza di Stefano Massini, tra i massimi drammaturghi del teatro contemporaneo, nonché consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano. Una versione ritmica lenta che ha entusiasmato poco la platea, se non nelle battute finali e nella grande direzione musicale del maestro Ettore Papadia. Un’edizione, la quarantaseiesima, che ha reso omaggio al genio di Ludwig van Beethoven, nel duecento cinquantesimo anniversario della nascita, che non vuole dimenticare Ennio Morricone, colonna sonora dell’Italia nel mondo. Un festival che ancora una volta è riuscito a parlare con certezza e sicurezza con la voce del futuro in tempo in cui dal buio ci si vuole riscattare. Un festival come luogo dove ritrovare la bellezza della vita dove i sogni e le speranze diventano la più alta e degna espressione di vita. Un festival diventato ormai icona per la Puglia ma anche una monade insostituibile per la sua città, Martina Franca. Un faro del Mezzogiorno per lo spettacolo dal vivo.

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