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L’EDITORIALE - Le ragioni per chiamarsi «giornale»

L’informazione in Italia, da che parte stare?

imagesMai come in questo momento la stampa italiana è in mezzo al guado. Anzi, sarebbe meglio dire in mezzo al pantano. Da un lato le sabbie mobili del suo retroterra culturale e storico, dall’altra le nuove tecnologie che la stanno ancor più marginalizzando. E, al centro, il pozzo nero di finanziamenti, di solito occulti, e di sovvenzioni statali a pioggia, che a quanto pare stanno per finire un po’ per tutte le testate. Da qui, soprattutto da questo restringimento dei cordoni della borsa da parte del potere politico e amministrativo, deriva in questi ultimi quattro o cinque anni la chiusura di alcune testate storiche nazionali, come l’Unità, e di tanti fogli locali, il cui scopo precipuo per molti di essi non era tanto la loro presenza nelle edicole quanto il ricevere vere e proprie elargizioni di soldi pubblici (a volte anche privati). E andare, di conseguenza, nei luoghi e sui tavoli che contano per esercitare pressioni e influenzare così le scelte di potentati economici, politici e burocratici.
Non è un caso che uno dei più affermati best seller presenti in questo momento sul mercato editoriale (Numero Zero di Umberto Eco, Bompiani 2015), rifà il verso a certa stampa nazionale il cui scopo precipuo non è quello dell’informare, ma essere puntata non metaforicamente come pistola carica – non certo a salve – e pronta a sparare per davvero contro chiunque osi frapporsi contro gli interessi politici ed economici che dietro le quinte manovrano la linea editoriale di testate piccoli o grandi che siano. La cosiddetta macchina del fango è il prodotto estremo di questo pensiero che motiva l’esistenza in Italia di molte testate giornalistiche.
In una recente e illuminante inchiesta (Giovanni Baer, Tre gradi di separazione, in “Paginauno” n. 18, giugno-settembre 2010, cfr. http://www.rivistapaginauno.it) su chi possiede o controlla, seduto nei Consigli di amministrazione, i principali quotidiani italiani e sulla longa manus delle banche e dell’industria nella carta stampata, si afferma: «La cosiddetta linea editoriale è ciò che distingue in sostanza una testata giornalistica da un’altra». Una pluralità di voci dalla quale dipende il cosiddetto «pluralismo informativo», condizione essenziale perché «uno Stato possa definirsi democratico», attraverso una libera e consapevole presa di coscienza di ciò che accade e quindi di una corretta e non coercitiva formazione del consenso. Ma è proprio questo ciò che avviene in Italia? La linea editoriale di una testata giornalistica, si dice ancora, «è ciò che distingue in sostanza una testata giornalistica da un’altra. Rappresenta, diremmo in linguaggio aziendale, una sorta di missione strategica, l’ipotesi di fondo a partire dal quale si scelgono e si analizzano le notizie». Dall’esistenza di «linee editoriali diverse – il cosiddetto pluralismo informativo – dipende la qualità dell’informazione, perché il pluralismo garantisce al cittadino/lettore la possibilità di conoscere notizie differenti lette da punti di vista differenti. Non solo. Dal pluralismo informativo dipende anche la possibilità che uno Stato possa dirsi democratico».
A questo punto, l’ovvia domanda è: dove si forma la linea editoriale di una testata? Naturalmente, nel luogo dove l’editore prende le sue decisioni strategiche, cioè nei Consigli di amministrazione delle società editrici. Ebbene, se prendessimo la mappa delle proprietà e dei Consigli di amministrazione delle maggiori testate italiane, come il Corriere della Sera e la Repubblica, ad esempio, vedremmo diversi punti di contatto nei legami tra stampa, finanza e industria. Quanto ci sia di giusto in tutto questo, non sta a noi dirlo. Sta di fatto che la stampa in Italia ha sempre rappresentato – per origini storiche soprattutto – una sorta di anomalia, una specie di minorato posto sotto perpetua tutela dai grandi potentati economici e politici. Tanto che la nostra idea di un giornale sostenuto soltanto dagli introiti delle vendite delle copie in edicola e degli spazi pubblicitari fu presa come un’ipotesi balzana da parte di qualcuno che era riuscito a immettere la propria testata nel provvidenziale fiume degli stanziamenti pubblici. Ma tutto questo sta per finire o è già finito per molte giornali in Italia. Se sia o no un bene lo vedremo fra qualche anno. Nel frattempo si assiste ad una vera e propria rincorsa di testate giornalistiche che si rifugiano nel web come se andassero ad abbeverarsi ad una fonte di rigenerazione. Annullati i costi esorbitanti per la stampa (bisogna pur far vedere il «prodotto», anche se si vendono a prezzo zero, cioè si buttano via come copie omaggio), si pensa di continuare nel solito andazzo: essere cioè strumenti asserviti e di pressione. Tanto a pagare saranno sempre gli stessi: i lettori. Lettori che nel web rappresentano una sorta di araba fenice, non più contati per numero di copie vendute ma per numero di contatti. Quanti di questi contatti siano reali o presunti, resta tutto da vedere. Ma il punto di domanda ­– nel calcolare la differenza tra giornale cartaceo o virtuale – resta comunque sempre la stessa: quale informazione e per chi? Da parte nostra, è a questo quesito di fondo – pur restando nel nostro «orticello» – che cercheremo continuamente di rispondere in modo chiaro ed onesto. Cioè: stare sempre, e rimanere, dalla parte di chi ci legge.

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