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ILNUOVOPAESE.IT del 11/17 aprile 2024, Numero 15 (Anno XIV) - IN COPERTINA

La vita in un trullo di Manoocher Deghati, fotoreporter per la libertà e la democrazia

Il fotoreporter iraniano

Il fotoreporter iraniano Manoocher Deghati (immagine internet)

di Francesco Caroli

«Per la libertà e la democrazia». Una frase marchiata a fuoco e col sangue è la dedica che Manoocher Deghati ci ha voluto fare sul frontespizio del suo romanzo biografico dal titolo significativo, che compendia in sole due parole tutta la sua vita: Ho visto, scritto da sua moglie Ursula Janssen.
Ma chi è Manoocher Deghati?
Personalmente lo abbiamo conosciuto circa un anno fa a Taranto, a un incontro di formazione giornalistica su «Etica ed estetica del fotogiornalismo». La sua persona, il suo aspetto, non avrebbero  per niente – per chi non lo conosceva già  – fatto pensare alla sua forza interiore, alla sua volontà d’acciaio, al suo senso spiccato di libertà e di fermo oppositore contro tutti i totalitarismi e i soprusi di qualsiasi genere e in ogni luogo. Un po’ basso e dal fisico certamente non corpulento, anzi piuttosto esile, non si distingueva per qualche particolare aspetto dagli altri tre relatori del convegno. Ma quando ha preso la parola è stato come se una luce lo illuminasse. Come se un pugno battesse forte sul tavolo. Come se un coro prendesse voce e gridasse all’unisono la parola  «Libertà – Libertà».

Manoocher Deghati in una foto giovanile su uno scenariodi guerra

Manoocher Deghati in una foto giovanile su uno scenario di guerra

Manoocher ha parlato per quasi due ore, intervallato dalle domande  e dai quesiti che gli venivano posti dai presenti. E per tutto quel tempo non ha fatto una piega, il suo intercalare gentile è stato dolce e amabile, come se raccontasse una favola ai suoi nipotini, nonostante la violenza e la crudezza dei fatti narrati come testimone oculare di guerre, massacri e attentati. Per concludere più o meno così: «Dal 2014 ho abbandonato qualsiasi idea di tornare nel mio paese, l’Iran, comprendendo una buona volta per tutte l’impossibilità di un viaggio a ritroso nei miei luoghi di origine. Ora sono in Puglia, e precisamente a Martina Franca, nella campagna della Valle d’Itria, tra alberi e trulli. E ho trovato indubbiamente la mia pace e la mia serenità, vivendo qui da circa dieci anni con mia moglie, Ursula Janssen, e la mia figlia più piccola».
Ma Manoocher Deghati non ha certo sotterrato, all’età di settant’anni, la voglia di portare in giro per il mondo le sue foto, le sue immagine scattate, a volte contro ogni logica di autodifesa, perciò quasi “rubate”, su ogni possibile scenario di guerra, di rivoluzione e di violenza che ha attraversato come testimone, facendo parlare l’obiettivo della sua macchina fotografica. Sin da ragazzino, nel suo paese lacerato da guerre e terrorismo, ha infatti considerato la fotografia come «un linguaggio universale e potente, capace di arrivare a tutti», avendo un unico scopo: «Contribuire nel mio piccolo alla speranza di far crescere la cultura della pace».
È stato ferito, torturato ed esiliato per aver denunciato – non solo in Iran – con i suoi scatti le «ingiustizie, le guerre, i genocidi, le morti dei ribelli, la povertà, gli abusi, le rivoluzioni per la libertà e la democrazia». E non per «suscitare scalpore ma semplicemente come cronaca del tempo». I protagonisti delle foto di Manoocher sono iraniani, afgani, egiziani, costaricani e nicaraguensi. «Le loro immagini e condizioni, scattate in tempi e luoghi diametralmente opposti, sembrano rasentare l’assurdo e appaiono talvolta in alcuni casi simulate e artefatte, dimostrando a volte come la realtà riesca a superare se stessa».

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Manoocher Deghati è stato ­«direttore dell’unità fotografica di Nazioni Unite (UN-OCHA/IRIN) e di AINA Photojournalism Institute in Afghanistan, direttore fotografico per Agence France Press (AFP) e Associated Press (AP), pubblicando regolarmente i suoi lavori fotogiornalistici su National Geographic Magazine. Docente Masterclass per World Press Photo Amsterdam, nel 1984 ha vinto il primo premio del concorso nella categoria “News Feature” con un reportage sulla guerra tra Iran e Iraq, mentre nel 1986 si è aggiudicato il terzo posto nella categoria “Daily Life” con una foto che ritrae le donne rivestite di chador che partecipano ai funerali di un leader della rivoluzione. Per sei anni, inoltre, ha fatto parte della giuria internazionale del concorso World Press Photo. Ha collaborato e collabora ancora con testate prestigiose come TimeLife Press, NewsweekFigaro e Marie-Claire».
La vita di Manoocher Deghati è stata narrata in un romanzo biografico, dal titolo Ho visto da sua moglie Ursula Janssen, raccontando la sua vita «avventurosa e audace di fotoreporter, sullo sfondo degli ultimi cinquant’anni di storia del mondo: esperienze straordinarie, incontri straordinari, incredibili coincidenze e numerosi aneddoti, alcuni dei quali sono più fantastici di quanto possa essere qualsiasi storia di fantasia. Allo stesso tempo, essi illustrano la natura dell’oppressione, la ricerca della libertà e un’indistruttibile voglia di vivere».
Dal suo libro, raccogliamo le parole che testimoniano nelle pagine finali la sua vita in questi ultimi anni. «Ora viviamo in Valle d’Itria in un trullo… e coltiviamo da noi la maggior parte del nostro cibo: vino, olio d’oliva, frutta, mandorle, noci, fagioli, ceci e grano. Le galline ci danno ogni giorno delle uova. In inverno un fuoco scoppietta nel camino, dandoci calore e un posto dove cuocere e rendendo superfluo il televisore». E a quanti chiedono a Manoocher del perché si è trasferito proprio in Puglia, tra i trulli della Valle d’Itria, lui che ha vissuto in tutte le parti del mondo, e avendo quindi una vasta scelta, la sua risposta è proprio questa: «Ecco perché!»
Da parte nostra, pensando alla vita avventurosa e difficile di Manoocher Deghati, e all’amore che lui ha avuto per gli altri e per se stesso, quasi naturalmente essa ci porta a quanto si descrive in una canzone di Gianna Nannini, Fotoromanza, dove una strofa ritrae involontariamente e in pochi versi tutto quello che il fotoreporter iraniano ha fatto e vissuto: «Questo amore è un camera a gas / È un palazzo che brucia in città / Questo amore è una lama sottile / È una scena al rallentatore / Questo amore è una bomba all’hotel / Questo amore è una finta sul ring / È una fiamma che esplode nel cielo…»

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